martedì 9 dicembre 2008

Acqua

martedì 9 dicembre 2008

E come acqua
Essi attraversarono le rocce

Poiché il loro sogno era oltre esse

E né le punte aguzze
Né le durezza della roccia
Poté fermare il loro cammino

Poiché essi erano acqua
E come acqua
Non potevano essere feriti

E come acqua
Erosero le rocce
Le avvolsero nel loro abbraccio

E dall’unione dell’acqua con la roccia
Nacque un albero

domenica 12 ottobre 2008

Vocabolario della vita quotidiana: merda

domenica 12 ottobre 2008

Noi siamo praticamente insignificanti, noi tutti. La nostra esistenza è nulla in confronto al tutto. L’universo è infinito, noi siamo fondamentalmente nulla. Siamo merda, nulla più. Degli escrementi buttati nel mondo dal culo del tutto creatore di vita e di morte. E faremmo bene a cambiare idea su ciò che noi con sommo disprezzo chiamiamo merda.
Come diceva Heidegger, noi siamo in uno stato di “essere gettato” nel mondo, poiché siamo qui senza nostra scelta. Ci troviamo buttati qui senza saperne l’origine.
Questa è una consapevolezza basilare se si vuole vivere in armonia con il resto del mondo. Poiché noi in questo mondo non siamo altro che merda e da questa infima condizione non possiamo certo pretendere che il mondo, in qualunque forma si incarni, che sia uomo o donna, vecchio o bambino, pesce o betulla, ci dia qualcosa in cambio.
Difatti, e tutti noi ne abbiamo prova ogni giorno, veniamo sputati e rifiutati dal mondo per qualche ragione mentre pretendevamo da esso qualcosa che, almeno così scioccamente pensavamo, ci spettava di diritto.
Come re sul trono, con un mantello d’ermellino, sbandierando lo scettro e starnazzando come galline, ordiniamo agli altri qualche cosa che è nei nostri desideri. E sempre ci aspettiamo che questa cosa così preziosa ci venga data. Ma non siamo dei re, il mondo è più forte e più grande di noi, e anche i veri re sono delle merde in confronto alla vastità dell’universo, che ci può salvare o uccidere in un momento. E l’umanità è stata molto costante e prolifica nella creazione della merda, più che di altre cose in cui invece è stata molto più altalenante come rendimento creativo.
E anche nella sofferenza siamo totalmente insignificanti. Spesso ciò che ci rende tristi o arrabbiati non è nulla in confronto alla sofferenza o alla rabbia che ci sono nel mondo. Quando soffriamo per sciocchezze siamo egoisti, egocentrici, presuntuosi e ipocriti.
Puzziamo e non ce ne accorgiamo. Indichiamo sempre gli altri come colpevoli. In realtà siamo tutti degli sporchi ipocriti. D’altronde madre natura ci fece una mano con cinque dita per indicare, ma noi, povere merde, non ci accorgiamo che mentre con l’indice indichiamo gli altri, ben tre delle nostre dita, nascoste dal palmo, indicano noi stessi. L’uomo spesso non sa guardare oltre, si ferma molto prima. Non riesce a guardarsi dentro. Neanche nel senso più letterale del termine. Altrimenti si accorgerebbe subito che anche dentro di lui c’è un sacco di merda.
Come possiamo vivere nel mondo se neghiamo l’esistenza delle cose? Vogliamo negare l’esistenza della merda? La vogliamo nascondere nell’armadio? Bene, facciamolo. Ma la merda esiste, non dipende da noi la sua esistenza. Se continuiamo a nascondere la merda nell’armadio, prima o poi lo spazio finirà e l’armadio esploderà sommergendoci tutti quanti della nostra stessa merda.
Che sia anche l’ora che cominciamo ad apprezzarci più gli uni con gli altri, consapevoli che tutti quanti siamo nella stessa condizione fecale. Citerò De Andrè, ma non in una canzone, per una volta: “Con l’andare del tempo si scopre che gli uomini sono dei meccanismi talmente complessi che agiscono tante volte in modo indipendente dalla loro volontà. Allora finisci per trovare poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore. Se estendi questo tipo di indulgenza anche a te stesso riesci ad avere un rapporto meno contrastato con il suo prossimo.” Non mi sorprende che sia colui che scrisse “dal letame nascono i fior” a dire queste cose.
Quindi, miei cari poveri esseri umani, categoria in cui m’includo con assoluto e sincero entusiasmo, non disprezzate la merda, non nascondetela, siate sinceri. Quando nascondiamo la merda nascondiamo noi stessi. Bisogna arrivare persino ad amarla, perché la merda siamo noi. Chi non ama la merda non ama se stesso.

martedì 7 ottobre 2008

La dimensione della mente, il tempo: appendice

martedì 7 ottobre 2008

E per concludere, temporaneamente, il discorso, una citazione che taglia la testa al toro:

Bart Simpson: "Dad? What is the mind? Is it just a system of impulses or is it something tangible?"
Homer Simpson: "Relaaax! What is mind? No matter... What is matter? Nevermind!"

lunedì 6 ottobre 2008

La dimensione della mente, il tempo: parte III. Il Demiurgo

lunedì 6 ottobre 2008

(segue...)

Bisogna chiarire ora cosa si intende per tempo. Esso è una dimensione della realtà umana come lo spazio fisico. Sia lo spazio che il tempo, come diceva Kant, sono delle “forme a priori della sensibilità”. Lo spazio, per il filosofo, era il senso esterno, il tempo il senso interno. Per me non è esattamente così. Lo spazio è la categoria che utilizziamo per muoverci nel mondo fisico. Il tempo invece è la categoria che utilizziamo per muoverci nel mondo dei significati, delle interpretazioni. Un mondo delle idee platonico, grosso modo.
Le idee e i significati delle nostre realtà, così come le nostre autobiografie e narrazioni di cui abbiamo parlato prima, sono nel tempo, attraverso la quale le nostre menti si muovono, mentre il corpo si muove nello spazio.
Ripeto, non voglio negare solipsisticamente l'idea che esista un mondo al di fuori di noi, come se tutto fosse un'illusione. Io credo che esista questo mondo e che il tempo e lo spazio siano il nostro modo prettamente umano di percepirlo.
Un solipsista negherebbe l'esistenza di qualunque cosa tranne della sua mente che gli da l'illusione di percepire cose al di fuori di lui.
Per me un solipsista è un megalomane. Sono d'accordo con Popper quando dice che è praticamente impossibile criticare i solipsisti, perché qualunque cosa gli si dicesse, essi potrebbero rispondere che è un parto della loro mente. Ma se tutto è parto della nostra mente, questo vuol dire che ci siamo creati da soli? Io non ho il ricordo di essermi creato da solo.
E se non ci siamo creati da soli, allora chi ci ha creato? Un demonio ci ha dato vita per il semplice gusto di farci vivere nell'illusione, come diceva Cartesio? A questo punto però, se ipotizziamo l'esistenza di questo demonio, dobbiamo accettare anche l'idea che esista qualcosa al di fuori dalla nostra mente. Cosa che andrebbe in contraddizione con il solipsismo.
Non so se questi argomenti basterebbero a convincere un solipsista. D'altra parte non è mio obiettivo parlare di questo, che mi sembra più un gioco di logica che non qualcosa di veramente sostanzioso. Quindi torniamo all'argomento principale.
La connessione tra spazio e tempo sarà quello che chiamiamo e percepiamo come realtà. Se ad esempio fantastichiamo di diventare dei grandi attori, questa idea che è in prospettiva, nel futuro, non verrà considerata realtà finché non sarà presente nello spazio. Questo non vuol dire che quell’idea non esista. In effetti l’espressione “sono solo fantasticherie” non mi piace molto.
Ora, il mio, apparentemente, è un dualismo radicale che rende mente e corpo due cose distinte e separate. E che per di più si muovono in mondi diversi.
Ho agito così per creare una nuova possibile prospettiva al problema mente/corpo, una domanda, un’ipotesi che possa portare verso nuove direzioni. In fin dei conti tutto il mio scrivere è un’immensa domanda.
Ma lo spazio e il tempo sono inscindibili, uniti, e necessari l’uno all’altro. Non c’è spazio senza tempo né tempo senza spazio. Le due cose scisse sono solo dei concetti astratti che non hanno riscontro nella nostra realtà quotidiana in modo così purificato e cristallizzato.
Noi dunque viviamo nello spaziotempo. Non c’è un organo privilegiato che connette la mente al corpo, o perlomeno non mi sembra sensato dare questo privilegio a qualsiasi parte anatomica. Tutto il nostro corpo è connesso alla mente e influisce su di essa.
Come possiamo constatare nella nostra esperienza quotidiana, anche un piccolo dolore al mignolo può influenzare i nostri pensieri, distrarci. Quando invece stiamo bene fisicamente anche i nostri pensieri ne traggono beneficio. Mens sana in corpore sano. E a pensarci bene non sto dicendo nulla che non sia stato detto già nel mondo classico.
Ci è difficile comprendere questa unità di tempo e spazio, di mente e corpo. Perché noi esseri umani comprendiamo con immediatezza le differenze e i confini tra le cose. Pensiamo per categorie. Ci è difficile comprendere l’unità, soprattutto se così vasta e totalizzante.
Eppure non ci sarebbe nulla di più facile che concepire lo spazio e il tempo come due cose unite, visto che non facciamo che esperire entrambe queste dimensioni contemporaneamente ed in modo indistinto ogni giorno.
Tornando al tempo, distinto dallo spazio per convenzione, ho trovato interessanti alcuni pensieri di S. Agostino, nelle “Confessioni”: egli afferma che il tempo è “distensione dell’animo” ed è percepito dall’uomo che, pur vivendo nel presente, è cosciente sia del passato che del futuro.
E’ forse questo il ritorno della psicologia al suo nome, come scienza dello spirito?
Il ritorno comunque non sarebbe a quello dell’anima cristiana, ma ancora più antico, a quello di psiche dei greci, di cui l’anima cristiana è un concetto derivato e trasformato.
D’altronde, quello che appartiene alla nostra sensibilità ci è dato dai nostri cinque sensi. Questi sensi nelle altre specie che vivono sulla terra cambiano di proprietà, per esempio sappiamo che i cani non vedono i colori come li vediamo noi. Inoltre i nostri sensi percepiscono gli stimoli all’interno di un certo intervallo: se un suono e troppo acuto o troppo grave non lo percepiamo, e così non vediamo nulla se c’è troppa luce o troppo buio. Insomma siamo limitati, e questo mi spinge a pensare che, potenzialmente potrebbero esistere altre vie per la sensibilità.
Perché non pensare di avere una via della sensibilità che ci consente di percepire il tempo ed i significati? Solo perché non vediamo sul nostro corpo una specie di “radar-cattura-ricordi”, al pari delle orecchie e del naso?
A questo punto ci può essere più semplice pensare alla mente come quella via della sensibilità che percepisce il tempo. Questa idea di mente non si discosta dall’idea di spirito, di psiche del mondo classico.
Ma, come dicevamo prima, viviamo in un tutt’uno di spazio e tempo, che sono inscindibili. Noi stessi esseri umani non siamo scindibili dal tempo e dallo spazio. Non possiamo essere divisi dal mondo. Siamo un tutt’uno con esso e non potremmo vivere senza quello che è altro da noi.
In questa unione naturale, il tempo è anima mundi e sposa dello spazio.
E io non sono altro che un semplice viaggiatore del tempo, al pari di altri uomini, che vaga tra le pieghe della memoria e scrive ciò che riesce a comprendere.

giovedì 18 settembre 2008

La dimensione della mente, il tempo: parte II. La narrazione e la mente tra passato, presente e futuro

giovedì 18 settembre 2008

(segue...)

Un problema è formato da una domanda e da una risposta. Ma se la domanda non serve alla risposta che vogliamo, ci domanderemo delle cose che risolveranno il problema sbagliato.
L’antroposofia, che si autodefinisce una scienza spirituale e che quindi non c’entra nulla ne con la fisica e la chimica, ma neanche con la psicologia odierna, dice che viviamo costantemente nel soprasensibile:

“Viviamo continuamente immersi nel sovrasensibile, avendo in questo, inconsciamente, il nostro massimo valore. Non lo sappiamo semplicemente perché non abbiamo una cultura in grado di dare un nome corretto alle cose che pur sperimentiamo.
Ci sono osservazioni molto semplici che ognuno può compiere su sé stesso e che lo porterebbero all’inizio di quella strada di conoscenza che porta a poter affermare quanto detto. Le più semplici e ripetibili iniziano con la osservazione della nostra vita di pensiero.

Esperimento: Ci si metta seduti e comodi e si evochi di fronte alla propria vista interiore l’immagine di qualcosa di molto pesante; ad esempio un automobile o un martello. Già mettendoci in questa posizione possiamo fare le osservazioni più elementari: ci si chieda quale è la natura dell’oggetto/immagine che così osserviamo e quale sia l’organo di percezione che utilizziamo per vederlo.

Sulla natura dell’oggetto possiamo fare le seguenti osservazioni:
ha aspetto e forma sensibile/ materiale, però:
non è sottoposto alla forza di gravità, non cade a meno che noi non lo immaginiamo cadere; e sottoposto unicamente alla forza della nostra volontà e immaginazione, le quali per altro lo possono trasformare nel colore e nella forma;
non è sottomesso alla legge della incompenetrabilità dei corpi: possiamo benissimo immaginare due automobili una dentro l’altra o due martelli che occupano lo stesso volume di spazio

Conclusione: l’oggetto osservato non è fatto di molecole e atomi; si presenta inequivocabilmente come qualcosa dall’aspetto sensibile/materiale ma non appartiene al dominio della materia.”

Questo è un pezzo tratto da una rivista di antroposofia. Poi lo scrittore va avanti dicendo che questo oggetto è percepito da un organo di percezione che “si colloca in corrispondenza della ghiandola pituitaria, fra le sopracciglia ed il centro del capo.”
Su questa conclusione non posso essere d’accordo perché è un passo non dimostrato. Perché è la ghiandola pituitaria? L’antroposofia sembra soprassedere su questo problema.
Sulla parte citata tra virgolette sono invece d’accordo: i nostri pensieri non hanno natura materiale, non sono pieni di materia, ma di significato.
Poiché non sono materiali, a mio modo di vedere, chiedersi dove sono i significati non ha senso. Se non sono materiali, dove possono essere?
E’ molto semplice: non hanno luogo e non ha senso chiedersi dove possa essere un pensiero, perché esso non è nella nostra testa. Non è tra le ossa del nostro cranio. Le categorie di spazio e di luogo non ci servono, non c’entrano nulla con il problema “mente” e dei punti fisici a cui far riferimento non ci sono. Non corrisponde ne ad un neurone ne ad un insieme di neuroni. Se non ha un luogo a cui far riferimento non ha senso neanche dire che un’idea sia nella testa di una persona o di un’altra.
La mente può avere altre origini non fisiche. Forse uno dei problemi del dualismo mente/corpo è proprio questo. In qualche modo si è sempre cercato, implicitamente, di ridurre la mente al cervello (tra l’altro non mi risultano tentativi di riduzione in senso opposto).
Ma se i pensieri della cosiddetta mente non sono in un qualche luogo, non sono fisici, come può la mente, che è concepita come loro contenitore, essere nella testa di qualcuno?
Diamo per scontato che la mente sia nella nostra testa. Ma forse le categorie di spazio e luogo non c’entrano con la mente. Il problema mente/corpo finora per essere risolto è stato circoscritto nello spazio fisico. Più o meno inconsapevolmente in tutte le teorie viene dato per scontato che comunque la mente stia nel corpo, sebbene sia una cosa diversa.
Io propongo un’idea diversa: il mio io nello spazio è il mio corpo, il mio io nel tempo è la mente.
Il corpo agisce sullo spazio, la mente nel tempo. Mentre il corpo forma e modifica oggetti, la mente forma e modifica storie. L’io spaziale, ovvero il corpo, si muove nel mondo fisico attraverso i cinque sensi e lo modifica. L’io del tempo, la mente, si muove nel mondo temporale e lo modifica.
La nostra mente non può lavorare solo sui dati certi fornitici dai nostri sensi e dalla nostra percezione. Altrimenti vivere sarebbe solo un continuo hic et nunc, senza memoria ne prospettiva.

Amleto:
“…Che cos’è mai un uomo
se del suo tempo non sa far altr’uso
che per mangiare e dormire? Una bestia.
Colui che ci ha dotati di una mente
sì vasta da vedere il prima e il dopo,
non ci largì questa capacità,
ed il divino don della ragione,
perché ammuffisca senz’essere usata…”


La grande capacità della mente è quella di muoversi nel tempo, tra passato, presente e futuro. Lavora su dati che non sono presenti nel campo percettivo.
Il tempo è la dimensione del pensiero, dove si trovano i significati.
La memoria, infatti, con tutte le sue possibilità (retrospettiva, prospettiva, autobiografica, semantica, eccetera) è la capacità del pensiero umano forse più basilare di tutte. E’ che cos’è la memoria se non un continuo muoversi nel tempo, tra passato, presente e futuro?
La memoria è la base dei nostri processi mentali, da cui partono le nostre congetture e interpretazioni. In essa vi sono gli oggetti del nostro pensiero e anche i legami di significato tra di essi. Lavorando sulla memoria lavoriamo sui nostri pensieri.
Si cambia il significato delle storie, aggiungendo dettagli mai avvenuti, togliendone altri, modificandone altri ancora. La psicologia più volte ha infatti mostrato come le persone effettuino, per lo più inconsapevolmente, delle distorsioni cognitive nei ricordi, rendendoli coerenti con una storia che possa essere verosimile. Oppure dimentica dei fatti considerati irrilevanti o dannosi.
La mente agisce anche nel futuro: si costruisce un’aspettativa, un corso possibile di accadimenti. Attenzione, perché ciò che sto dicendo non vuol dire che possiamo prevedere il futuro. Questo non è un articolo sulla divinazione.
Quello che può fare la mente umana è crearsi un’aspettativa verosimile per il futuro, per essere, diciamo, più preparati. Inoltre nel futuro noi stessi potremo agire in favore dell’avvenimento di quella aspettativa. Sia che si tratti di qualcosa che desiderava, come l’aumento di stipendio, sia che si tratti di qualcosa che non desiderava: è il caso delle cosiddette “profezie che si autoavverano”. Frequente è il caso in cui qualcuno predice un suo possibile fallimento e, rattristandosi e scoraggiandosi, non fa più tutte le cose che gli permetterebbero di raggiungere il risultato o le fa comunque in modo poco motivato: ed ecco che la profezia si avvera, ma non perché siamo dei chiromanti. Anche qui questi processi mentali molto spesso sono inconsapevoli.
Infine il presente, momento di massimo contatto col mondo fisico. Anche qui i pensieri si muovono attraverso le stesse interpretazioni e regole narrative che usiamo per passato e futuro.
L’hic et nunc, il qui e ora, è un concetto di fondamentale importanza, perché è il momento di fusione totale tra la nostra mente ed il nostro corpo.
Come agisce la mente per interpretare ciò che arriva dai cinque sensi e dallo spazio fisico nel presente?
Mutuando l’idea di pensiero narrativo di Bruner, infatti, possiamo capire come il nostro presente vada oltre la semplice percezione attraverso i sensi.
Con i nostri pensieri noi interpretiamo il mondo e gli avvenimenti e gli diamo un significato. Uno schiaffo, a seconda dello stile narrativo, può essere interpretato in molti modi.
Il nostro modo di vivere dipenderà quindi dal nostro modo di raccontarci, dallo stile narrativo della nostra biografia. Non valgono in questo caso le leggi fisiche, ma le leggi ermeneutiche e narrative.
L’autobiografia avrà, dunque, una sequenza di eventi uniti da una coerenza interna che gli da un significato unico.
Noi siamo davvero come i personaggi principali del nostro romanzo. Un libro, in fin dei conti, è il modo di uno scrittore di interpretare una serie di eventi.
La narrazione è un vero e proprio dispositivo conoscitivo ed ermeneutico, che guida il nostro esperire e si muove nel tempo. Di conseguenza anche il comportamento, l’agire, sarà coerente con la narrazione. Le nostre azioni nell’hic et nunc saranno coerenti con l’immagine di noi stessi che è stata creata dalla narrazione.
Infatti la narrazione, oltre che processo conoscitivo ed ermeneutico, è anche un processo mentale che permette la continua costruzione e conoscenza di noi stessi. Noi siamo gli attori principali della storia, e saremo coerenti ad essa. La nostra storia, costruita da eventi legati da significati, ci costruisce, creando il sé.
Insomma, nella mente e nel tempo le regole sono diverse, altri i processi ed i legami tra le cose. Gli oggetti di pensiero sono legati agli altri mediante legami di significato, non di causa.
Come abbiamo visto nella prima parte, le cause non sono mai state sufficientemente adatte a spiegare la mente umana (vedi l’esempio del topo arrosto). Queste mie ipotesi sono un tentativo di mostrare una nuova via per la comprensione della mente e un’altra possibile prospettiva per la psicologia.

(continua...)

sabato 13 settembre 2008

La dimensione della mente, il tempo: parte I. Psicologie: cause e significati

sabato 13 settembre 2008

Il nostro modo di concepire e spiegare il mondo è simile a quello delle scienze naturali. Queste, infatti, spiegano i fenomeni mediante relazioni di causa-effetto. Se ci chiediamo il perché di un qualsiasi evento, andremo a cercarne la causa che lo ha provocato. Questo modo di pensare è chiamato meccanomorfismo, proprio perché gli eventi sono lungo una catena di eventi causa-effetto, come all’interno di una grande macchina che funziona con determinati meccanismi prestabiliti.
Perciò anche le nostre azioni hanno una causa, e risalendo di causa in causa si arriverà ad un Big Bang madre di tutte le cause. Le nostre azioni sono quindi il frutto di concatenazioni di eventi causali e tutto è spiegabile mediante questi nessi. Anche il mio scrivere qui è frutto di questo meccanismo, che è inevitabile e necessario.
Questo è il modo di pensare delle scienze classiche. Esiste un metodo scientifico ed obiettivo per spiegare la realtà. Questa realtà è ontologicamente esistente al di fuori di noi, ed è conoscibile mediante metodologie empiriche. Lo scienziato, utilizzando queste metodologie, dovrà tener conto solo dell’evidenza sensoriale.
Le scienze, così, hanno spiegato milioni di fenomeni, misurato distanze, costruito meccanismi, eccetera. E se ci sono eventi non ancora spiegati, questo vuol dire che le nostre metodologie e di studiarli non è ancora adeguato. Quindi la spiegazione c’è, ma ancora non siamo pronti a scoprirla.
Anche la scienza psicologica vuole spiegare i fenomeni mediante relazioni di causa-effetto. Questo però ha creato innumerevoli problemi alla psicologia, non solo metodologici, ma anche e soprattutto epistemologici. Cos’è la psicologia? Qual è il suo oggetto di studio? Cos’è la psiche? Cos’è la mente?
Misurare l’altezza con un metro è cosa piuttosto semplice. Voler misurare la tristezza, l’estroversione, l’intelligenza con metodi obbiettivi è cosa invece piuttosto ardua. Infatti in psicologia non abbiamo un metodo univoco per misurare queste caratteristiche. Ad esempio ci sono molti test d’intelligenza, che utilizzano domande differenti per poi giungere a differenti punteggi, non confrontabili fra loro. I punteggi delle scale d’intelligenza, così come quelli di altre scale che misurano altri aspetti psicologici, sono delle brutte copie mal utilizzate del metro per l’altezza. Poi il concetto d’intelligenza cambia da test a test. In questo caso infatti possiamo vedere come i problemi stiano proprio alla base. Non si è d’accordo neanche su cos’è l’intelligenza. Come possiamo misurarla allora, e pretendere di essere obiettivi?
Un altro caso importante è quello della psicologia clinica. Infatti essa è perlopiù basata su modelli medici, ovvero esistono delle malattie mentali che hanno un’eziologia, un decorso e un esito. Insomma anche qui si è all’interno di una visione meccanomorfica, con relazioni causa-effetto. Ma qui cominciano i guai, perché in effetti le cause non si riescono mai a trovare in maniera effettivamente obbiettiva e scientifica. Per esempio la causa della depressione può essere un lutto familiare. Ma non tutti i lutti familiari portano ad una depressione, che può derivare da molte altre circostanze, può non dipendere da un evento visibile. E così anche altri aspetti della psicologia clinica. Voglio dire che si vuole cercare un meccanismo causale simile a quello che porterebbe ad una malattia organica, come una febbre. Ma questo meccanismo sfugge, cambia da caso a caso, non si trovano delle cause certe e dei processi comuni.
Un altro problema della clinica è che spesso si cade nell’errore di fare delle tautologie: “come mai sei depresso? Perché sono triste”. “Perché sei triste? Perché sono depresso.” E’ molto semplificato ed ironizzato, ma a conti fatti quello tra virgole può essere un riassunto di quello che dice il maggiore manuale di psicodiagnosi, il DSM-IV.
Il problema quindi sta alla radice, è il dualismo mente-corpo, che non è stato mai risolto. Nell’ultimo secolo poi si è molto cercato di ridurre la mente al corpo, almeno per ora inutilmente.
Volendo competere con altre scienze dalle basi già consolidate, si sono usate teorie, termini e metodologie spesso fuorvianti e non adatti.
E’ evidente, dunque, che lo studio della psiche ha dei problemi d’identità, e per una scienza che si propone invece di risolverli è il colmo. Negli ultimi anni però diversi studiosi stanno cercando di dare alla psicologia delle basi epistemologiche solide, dirigendosi verso altre direzioni poco esplorate.
La nuova prospettiva epistemologica è quella propria delle scienze postmoderne. Il cambio di prospettiva è semplice ma decisivo, in quanto si afferma che per la psicologia le relazioni di causa e il meccanomorfismo non sono adatti a spiegare gli eventi psichici. Questi invece hanno un altro genere di relazione: la relazione di significato. Ciò vuol dire che questi eventi non sono riconducibili ad eventi fisici, ma hanno un’altra realtà a loro peculiare. Le persone agiscono in base al senso che si da alle cose, alle emozioni legate ad esse, ai ricordi, al contesto, eccetera.
Secondo l’interazionismo simbolico le persone agiscono verso le cose sulla base di un significato, e questo sorge dall’interazione sociale. Il significato quindi è sempre in continua creazione e modificazione. La fucina in cui prendono vita i significati è il confronto con l’alterità, con l’altro da sé, che avviene nell’interazione con il mondo che ci circonda. Attraverso l’interpretazione poi i significati vengono modificati.
La psicologia ha allora il compito di studiare i significati che guidano le azioni degli individui. Qui si vede come questa visione antropomorfica si opponga al determinismo meccanomorfico: le azioni degli individui non sono frutto di una serie di meccanismi di causa. La realtà fisica è diversa da quella simbolica. Vi offro un esempio che mi è stato fornito durante una lezione universitaria, molto calzante: entriamo in una cucina e sentiamo un profumo delizioso. Ne cerchiamo la fonte e quando la troviamo ci accorgiamo che è un topo arrostito. A questo punto ci passa completamente l’appetito. Eppure la realtà fisica è di un altro avviso, la nostra percezione olfattiva ci dice che quel topo ha un buon odore, e magari anche un buon sapore. Poi gli facciamo anche un’analisi approfondita e scopriamo che è pulito e commestibile. Perché non lo mangiamo? Perché quel topo, nella nostra società, corrisponde ad un significato ben lontano dalla parola commestibile e men che meno dalla parola appetitoso. Qui vediamo come il comportamento umano e la psicologia possano essere molto più facilmente spiegati mediante relazioni di significato tra idee, piuttosto che da meccanismi puramente fisici.
Non intendo assolutamente negare solipsisticamente l’idea di un mondo fisico e dire che tutto è un’illusione, non è mio obiettivo neanche occuparmi dell’esistenza di un mondo fisico. Quello che voglio mettere in evidenza è il fatto, esista o meno un mondo fisico, che viviamo muovendoci tra più dimensioni, tra cui quella fisica è solo una delle tante.

(continua...)

martedì 2 settembre 2008

Vocabolario della vita quotidiana: volontà

martedì 2 settembre 2008

Alla base di tutto sta la volontà. Al nocciolo, dopo aver mangiato tutta la pesca, quello che rimane è la volontà. Le nostre azioni sono guidate da essa. Ciò che vogliamo è importante, il nostro desiderio.
Il problema è che la volontà è spesso nascosta, anche a noi stessi. Agiamo conformemente ad essa senza accorgercene.
Viene coperta da altre cose. Dal torto e dalla ragione ad esempio. Chi ha torto e chi ha ragione è veramente importante? Due amici litigano. Uno ha torto, l’altro ha ragione. Ciò che risolverà la questione non sarà la razionalità, il pensiero logico, che come giudici stabiliranno il colpevole. Ciò che conterà sarà la volontà di entrambi di risolvere la questione e di rimanere amici. Se vogliono rimanere amici, lo rimarranno, chiunque abbia il torto o la ragione, e qualunque sia il fatto accaduto. Il resto sono parole, discussioni, che poi si dimenticheranno.
Oppure la giustizia. La giustizia non è nulla in confronto alla volontà. Ciò che sarà giudicato giusto o sbagliato dipenderà da quello che vogliamo. Da quello che voglio io, tu, noi, voi.
La razionalità e la logica non c’entrano. La logica delle azioni di una persona può essere coerente con la sua volontà. Ma a volte non lo è e le due cose sono scisse. La volontà può andare in direzione totalmente opposta a quella del ragionamento. Il ragionamento può giustificare la volontà, oppure nasconderla. Potrebbe anche cambiarla. Solo se non rimane puro ragionamento, se riesce a colpire in profondità.
E’ più facile cambiare il pensiero di qualcuno, piuttosto che la sua volontà. E’ difficile confrontarsi e scontrarsi con essa.
Se vogliamo veramente una cosa, riusciremo a prenderla.
Se non ci riusciremo, non ci dovremo preoccupare, perché abbiamo provato ad averla, e il fallimento non sarà dipeso da noi. D’altra parte non siamo onnipotenti, ed il mondo è grande e ci sono altre volontà.
Oppure non la volevamo veramente.
A volte, noi esseri umani ci sentiamo in colpa dopo che non siamo riusciti ad avere qualcosa. Dispiacersi è giusto, sacrosanto. E’ naturale sentirsi tristi se qualcosa non riesce. Prima o poi passerà. Ma sentirsi in colpa? Denigrare se stessi? Cosa abbiamo fatto per meritarcelo?
Nel senso di colpa sta un sentimento di responsabilità per ciò che è successo. Se ci sentiamo in colpa per non essere riusciti a raggiungere quello che volevamo, almeno consapevolmente, c’è qualcosa che non va. Forse che non lo volevamo veramente. Forse che una volontà c’era, ma non era la nostra.
No, certo. Non è solo per quello. Qui c’entra la paura, che ha volte può essere più forte della volontà. Ma anche qui sta una scelta, un desiderio nascosto. Ad esempio il desiderio di non vivere una delusione. C’è volontà nell’agire, ma anche nel non agire.
E’ difficile capire ciò che si desidera veramente. Il sentimento di colpa in questo caso può essere un segnale del fatto che non si è agito coerentemente alla propria volontà.
Ma, come detto, non siamo onnipotenti, e la nostra volontà da sola non basta.
Ciò che conta ora è: più i nostri pensieri e le nostre azioni sono coerenti ad una volontà che sentiamo nostra, più ci sentiremo vivi.
Vivi e liberi. Molto spesso capita di non riuscire a fare una cosa, e non si sa perché. C’è una sensazione di impedimento, di blocco. E’ mancanza di libertà. C’è qualcosa che impedisce le nostre azioni e ci tiene legati come un cane al guinzaglio. Non ci sentiamo liberi poiché la nostra volontà non si riesce ad esprimere, poiché non la conosciamo.
Non si può avere libertà senza volontà.
Provate ora a connettervi con la vostra volontà, quello che volete fare davvero in questo momento. Tentate di avere questa connessione intima con voi stessi sempre, e a pensare anche alle piccole cose che desiderate, come mangiare un pò di cioccolata o fare una passeggiata.
La conoscenza della volontà ci spinge ad agire. Come se improvvisamente si accende una luce in una stanza buia e possiamo finalmente trovare ciò che stavamo cercando.
Ma la conoscenza della volontà non è cosa semplice, poiché è nascosta, e la connessione intima con essa è deviata dall’influenza che il resto del mondo esercita su di noi. Riuscire a raggiungere questa connessione è avere la più profonda conoscenza di se stessi.
Spesso non ci si riesce. A volte non la si vuole avere.
Lo stalker di Tarkovskij porta gli uomini nella “Zona”, dove essi potranno trovare, dopo un viaggio pericoloso, una stanza che fa avverare il nostro desiderio più profondo, talmente profondo e coperto dalla nostra vita sociale che non sappiamo neanche quale esso sia.
Ciò che si vuole veramente. Fa paura solo a pensarci. Io mi ritengo una persona abbastanza tranquilla. Ma se entrassi in quella stanza che succederebbe? A me? Agli altri? Al mondo?
Magari apparirebbe uno stuolo di donne dalle curve sensuali. Forse non desidero neanche starci in questo mondo, e morirei appena entrato. Forse invece il mondo rimarrebbe distrutto. O forse non accadrebbe proprio nulla.
E voi? Sapreste rispondere alla domanda: cosa voglio veramente?

lunedì 1 settembre 2008

L’Italia brucia

lunedì 1 settembre 2008

L’Italia brucia
Bruciano i lustrini
Bruciano i lampioni
Bruciano gli armadi
Bruciano gli Armani
Bruciano le facciate dei palazzi
e crollando scoprono il nulla dietro
Il ponte dei sospiri sbuffa
Il pallone è sgonfio
Re Francesco è morto
sbranato dalle bestie del Colosseo
che ringhiano e ululano nella notte
saccheggiano e stuprano la città
Il trono che riempiva ora è di nuovo vuoto
Vuoto come il cuore di un emigrante
della diaspora meridionale
E a Taormina nel teatro
i satiri preparano un sacrificio a Dioniso
mentre le membra si mescolano nell’orgia
Totò e Totò sniffano cocaina e polvere da sparo
guardando le macchine sulla A29
che lasciano strisce di sangue sull’asfalto
Un altro Totò sta nascosto sottoterra
perché a Napoli non è più aria
Il fumo acceca e penetra
tra i muri e nei polmoni
Non si respira più
L’Italia dorme e fa finta
L’Italia è un’illusione
L’Italia siamo noi
L’Italia sono io

martedì 12 agosto 2008

Vocabolario della vita quotidiana: purezza e naturalezza

martedì 12 agosto 2008

dedicato a Irene e Monica.

Inseguendo la purezza ci incastriamo nei nostri stessi obiettivi, e rimaniamo infelici. Alla ricerca del puro, dell’incontaminato, del perfetto, del “pulito” ci perdiamo, poiché questi concetti sono impossibili. Poichè non esiste una cosa incontaminata, tutto è contaminato. Tutto tocca qualcos’altro, è toccato da qualcos’altro, che lo sposta, lo muove, influenza. Non siamo soli, checché ne dica la nostra cultura individualista.
Niente è solo, unico ed intoccabile, perché qualunque cosa esso sia, lo consideriamo sempre da un punto di vista. Questo punto di vista è un’ipotesi sull’oggetto che si esamina, e che quindi non è considerato nella sua ipotetica essenza pura di oggetto qual è, ma è contaminato dall’ipotesi del nostro punto di vista.
All’opposto, invece, più ci avviciniamo al contaminato, al miscuglio, allo “sporco”, più vediamo le cose nella loro naturalezza, nel loro proprio ambiente, nell’habitat naturale direbbe un etologo.
Meglio avvicinarsi alla naturalezza quindi, alla sintonia con noi stessi dove e quando siamo, non con noi stessi e basta.
Hic et nunc.
La purezza, così come la intendo io, è il frutto dell’eccessivo lavoro di un nostro umano processo di pensiero, la categorizzazione. Se non l’avessimo, non riusciremmo neanche a vivere, poiché abbiamo bisogno di punti di riferimento per muoverci. Se non riuscissimo a categorizzare nulla, dai concetti più astratti alla maniglia della porta della nostra stanza, non potremmo fare nulla e vivremmo nel vuoto privo di significato. Questo non ci è possibile poiché i nostri sensi sono fatti apposta per cogliere le differenze ed i contrasti, e quindi in seguito categorizzare in base a queste differenze.
Considerare l’ambiente, il contesto, in cui ci si trova, ci permette di prendere in considerazione i nostri limiti, fino a che punto possiamo muoverci. Di conseguenza, così come considereremo i limiti, considereremo anche il nostro possibile spazio d’azione, e perciò anche le nostre potenzialità.
Così, con maggiore consapevolezza delle nostre possibilità, sia i nostri pensieri che le nostre azioni possono dirigerci verso una maggiore felicità. Le potenzialità possono accrescere col tempo, ma non bisogna mai dimenticare anche il limite. Altrimenti la vita tenderebbe all’insoddisfazione.
Non possiamo farcela da soli, dobbiamo farci aiutare, da qualcuno o qualcosa. Questo è il senso ultimo della naturalezza. Quando accettiamo senza remore l’aiuto perché consapevoli del nostro limite. Consapevoli di dove finiamo e dove inizia qualcos’altro.
La potenza della naturalezza è incredibile, perché in quest’ultimo aspetto possiamo vedere anche un’altra cosa: l’amore.
L’amore è un concetto non puro, assolutamente non puro, per me. Ed è forse per questo che sfugge alle definizioni. Se l’amore è una fusione di qualche tipo, tra due esseri, non è certamente di purezza che stiamo parlando.
Io nell’amore vedo la bellezza dei miei limiti e delle mie incapacità, e di sapermi abbandonare all’altro senza orgoglio. L’amore non ha orgoglio, perché non ha ideali da difendere. L’amore forse non è neanche un’ideale. Cos’è l’amore puro? Il vero amore? Non so cosa sia per voi, ma l’amore non è una cosa, sono almeno due. Io l’amore l’ho scoperto con l’alterità, con ciò che è diverso da me. Quando mi sono accorto che io non sono tanto importante, quando ho saputo dare più importanza agli altri. Sono uscito dal castello dei limiti del mio io, e tutto ciò che era dentro è uscito fuori, nel dare qualcosa all’altro.
Quello che sta nel castello del nostro io, difeso in nome della purezza, perché il nostro io rimanga incontaminato sono solo gli escrementi non eliminati di ciò che produciamo con la nostra mente senza buttarli via. Come quando non riusciamo a buttar via i nostri vecchi giocattoli.
Per me l’amore è creare e dare qualcosa a qualcuno per la sua felicità, senza aspettarsi nulla. Anche un semplice regalo di compleanno, la forma più semplice del dare.
Dare per me è condivisione. E’, anch’esso, almeno due cose, non una. Come l’amore, e forse sono la stessa cosa. Rieccola la naturalezza, la mescolanza, lo sporco, la condivisione: di spazi, di momenti, di emozioni, di idee. Il cielo senza le stelle, la luna senza il sole: questi sono esempi di purezza. Di inseguire un’idea impossibile.
La naturalezza, la fusione, sono amore. La naturalezza è infinita, e anche l’amore.

venerdì 25 aprile 2008

Il duello

venerdì 25 aprile 2008



Ciao, sono la tua ostinata voglia di sognare
Ehi, fermo, che cazzo vuoi fare?
Mi vuoi ammazzare?
Sono io che ti ho salvato sempre
Tutte quelle volte che ti hanno fatto lo sgambetto
Tutte quelle volte che ti hanno colpito al cuore
Tutte quelle volte che sei caduto
Deluso
Stanco
Arrabbiato
Triste
Tutte quelle volte
Ogni volta sono stato io quello che ti ha teso la mano
E che ti ha fatto rialzare


Ma sei stato anche tu quel fottuto stronzo che mi ha fatto cadere
Tutte quelle volte
In cui mi ero illuso che per una volta potesse andare bene
Tutte quelle volte
In cui ho sognato che ci fosse qualche speranza
E’ per te che cado
E poi mi fai rialzare
Per farmi cadere un’altra volta

Povero sciocco!
Se mi uccidi morirai anche tu
Sono io la tua linfa vitale


Non sei la mia vita, sei il morbo che la impesta
Sei il mio male di vivere, la mia maledizione
Offuschi la mia mente con pensieri
Che cavalcano e cavalcano
Su altri pensieri
Sempre più veloce, sempre al limite
Solo quando i pensieri poi si trasformano in lacrime ho conforto

Allora spara!
Così cadrai per l’ultima volta


E sparo
E cadiamo
Io da una parte e lui dall’altra

Poi mi sveglio, mi alzo dal letto
Entro in bagno, mi lavo la faccia
Vado in cucina a prendere un caffè e leggere il giornale
Poi guardo l’orologio e vado a lavorare

Le scelte non sono fatte per risolvere problemi
Ma per decidere quali problemi risolvere

lunedì 7 aprile 2008

La caverna

lunedì 7 aprile 2008

Fu così che Lili mi lasciò nell’oscurità. Avevo paura, e i pensieri mi circondavano coprendo il silenzio e il buio. Mi voltai per un’ultima volta e vidi Lili che abbandonava la caverna. Aveva un lungo vestito bianco, un passo leggero ed elegante, i capelli lunghi sciolti che scendevano sulle spalle. Si voltò e mi sorrise. Era bellissima, bellissima. E malinconica. Si girò di nuovo e andò. Sarei riuscito a vederla ancora? Non importava molto ora. Dovevo risolvere una questione molto importante senza di lei.
Mi girai di nuovo verso il buio e cominciai a camminare. Pian piano i passi diventarono più decisi, e fu allora che cominciai a vedere chiaro. Anzi, mai vidi più chiaro in tutta la mia vita. Una mano, il cui braccio era attaccato sulla parete alla mia destra, mi chiamò ad alta voce e mi disse: “Forestiero, fermati. Prima che tu vada avanti ci sono delle cose molto importanti che devi sapere.”. La cosa curiosa era che i denti della mano erano tutti incisivi, perfettamente allineati l’uno con l’altro, e aveva delle labbra molto belle e carnose. Mi fermai ad ascoltarla.
“Innanzitutto le cose non sono come sembrano.”
“Va bene”, le risposi.
“Secondariamente, e conseguentemente, tutto può essere il contrario di tutto. Ricordalo prima di entrare.”
“Lo farò.”
“E terzo: non c’è due senza tre.”
“Molte grazie.”
Proseguendo mi accorsi che spesso sulle pareti apparivano delle ombre, e ogni tanto sui muri c'erano delle scritte, in diverse lingue. Molte erano in greco o latino, ma ce n’erano parecchie anche in tedesco e cinese. Erano tutte sorprendentemente ragionevoli e d’effetto, ma le dimenticavo presto.
Alla fine della caverna sulla parete c’era una porta. Un’etichetta diceva che quella era la casa della Ragione. C’era un batacchio per bussare. Lo usai.
“C’è la Ragione?”
“No, non c’è”, disse seccamente la porta, “E’ andata al bar.”
“Quale bar?”
“Quello più vicino a qui.”
“Mi sembra ragionevole.”
“Lo è. Arrivederci.”
“Arrivederci.”
La porta mi rispose in modo fin troppo secco. La oliai un pochettino, e i suoi modi cambiarono radicalmente.
“Grazie mille! Lei è un gentiluomo, ora smetterò di cigolare. Il bar si trova a cinquanta metri a sinistra della caverna.”
Così uscii dalla caverna e mi recai al bar più vicino. Aveva dei grandi finestroni, e si poteva vedere dentro. Un uomo e una donna molto vecchi stavano discutendo molto animatamente all’interno. Quando fui dentro capii che la vecchia signora era la Ragione, e stava litigando con un altro signore anziano, di nome Torto.
Parlavano di una questione che sembrava essere molto antica, che si protraeva stancamente fino ad oggi da molti anni, senza soluzione. Il signor Torto sosteneva che in realtà non era quello il suo nome, e che era stato scambiato per sbaglio all’anagrafe con quello della signora Ragione da un’impiegata distratta che li aveva registrati nello stesso momento. Pareva, infatti, che i due fossero nati nello stesso identico giorno alla stessa identica ora. Non sembravano aver raggiunto il minimo accordo sulla faccenda.
Ad un certo punto si fermarono per un po’ di tregua, e il signor Torto si avvicinò al bancone per chiedere da bere. Io ne approfittai per andare a parlare alla signora.
“Buongiorno. Vedo che è un po’ stanca. E’ molto battagliera, ho notato. Potrebbe combattere molto bene in guerra, signora Ragione.”
“Nessuna guerra e nessun esercito mi avranno mai.”
“Sa, la stavo cercando, signora.”
“Davvero? Strano, di questi tempi nessuno mi cerca più tanto spesso. Chissà come mai.”
“Beh, io ce l’ho un motivo per cercarla. Ultimamente sono un po’ in crisi, non riesco a dare senso alla mia vita, a quello che faccio. Tutto mi sembra così casuale, senza senso. Lo faccio per abitudine, quasi meccanicamente. Sono stufo. Mi hanno detto che lei è brava a risolvere queste questioni.”
“Ah, giovanotto, lei è molto gentile. Mi sta molto simpatico. Anzi, diamoci del tu d’ora in poi. Ehi, Gastone, porta un amaro al ragazzo qui!”
Il barista fu molto efficiente.
“Grazie mille, non dovevi.”
“Prego. Ma purtroppo non posso aiutarti molto in questo caso. Vedi, la vita non è sempre molto ragionevole e lineare. E non sempre ha un solo senso.”
“Dici che dovrei pensare più ai sentimenti?”
“Certo, anche quello. Ma soprattutto sei tu che decidi quali sono i significati della tua vita. Non posso decidere io, ne nessun altro al posto tuo. E se mentre fai una cosa ti accorgi che per te non ha senso, che non provi niente, allora cambia!”
“Accidenti. Ma non è mica così facile!”
“La vita non è facile, Benvenuto nella vita! Ora pensa al tuo cuore. Dove andresti ora se lo seguissi?”
Pensai a quanto fosse meraviglioso rendere felice Lili. E tornai a casa da lei.

domenica 6 aprile 2008

Viva il teatro dove tutto è finto e niente è falso

domenica 6 aprile 2008

Questa che segue è un'apologia della maschera, volta a smontare clichè molto radicati. E' stata ispirata da un discorso fatto da un mio amico attore, di nome Nicola, con cui ho anche fatto un paio di spettacoli teatrali amatoriali che lui stesso ha diretto.

Ma che dici Nicola? L’attore è la persona più vera di questo mondo? Ma dai! Stai recitando anche ora? Scusami, ma l’attore è colui che finge per antonomasia. Prende un testo, che di solito non ha neanche scritto lui, lo impara a memoria, studia sulla sua interpretazione e poi lo porta sul palcoscenico. Finge! Ha una maschera! Non può essere la persona più vera di questo mondo, anche se è tanto preparato e sa tutto delle tecniche teatrali! No?
No. Non è così, non è così semplice se ci si pensa bene. Hai ragione, caro Ciaffoni. Forse per chi non ha mai recitato questo è un concetto un po’ ostico. Non che io sia il nuovo Vittorio Gassman, ma quel poco di esperienza che ho mi ha permesso di notare alcune cose.
L’attore è vero, anche quando recita. Perché non è la semplice somma degli anni di accademia teatrale che rendono bravo un attore. Perché, come dici tu, per recitare, ci vuole testa, cuore e viscere. Cioè in tutto e per tutto gli stessi elementi che usiamo nella vita di tutti i giorni. Solo che in più a teatro diventi cosciente di questi tre elementi.
Un attore bravo, un attore che sa trascinare il pubblico quando è sul palcoscenico, che riesce ad appassionare chi gli sta davanti, non è falso. Se sa dare forza alle sue parole, ai suoi gesti e a trasmetterli agli altri vuol dire che crede in quello che dice. Che non mette solo la testa nella recitazione, ma tutto se stesso. Lui, in un certo senso almeno, è il personaggio, non fa finta.
A teatro solo il succedersi degli eventi è finzione, ma i significati e i valori sono assolutamente reali e vivi se si è pronti a coglierli.
Qui però bisogna chiarire il concetto di maschera, che è un termine che può essere facilissimamente frainteso, o, meglio, a cui si tende a dare solo la valenza negativa. Infatti la cosa più banale e automatica che ci viene in mente pensando alla maschera è la falsità: immaginare qualcuno con una maschera vuol dire pensare che si sta coprendo, che sta mostrando qualcosa che non corrisponde a se stesso. Questo naturalmente può essere vero, le persone spesso usano delle maschere per nascondersi o mostrare cose non vere. Ma non è necessariamente così.
Questo è un punto focale perché sposta l’attenzione non sulla maschera in se, ma su come la si usa. La maschera può essere anche, quindi, uno strumento per potenziare se stessi, per dare più vigore a quello che si vuole veramente dare agli altri, in modo che essi lo recepiscano. Questo è il senso che Nicola da alla maschera, e così di conseguenza alla grammatica, alla dizione e alle altre tecniche teatrali. Non ha un senso negativo di falsità, ma un altro valore, positivo. Cioè come strumento per essere noi stessi così come davvero desideriamo. Basti pensare a quanto ci si sente liberi e disinibiti quando indossiamo un costume ad una festa. La maschera da la possibilità di liberarsi di alcuni schemi sociali che possono impedire la nostra realizzazione.
Attore etimologicamente significa “colui che agisce”, ovvero, interpretando un pò, colui che rende agito, reale, cioè che fa. In fondo siamo tutti attori, insomma. E la differenza che c’è tra attore vero e attore falso è la stessa che c’è tra persona vera e persona falsa.
Inoltre imparare le tecniche della recitazione è un modo per conoscere se stessi. Facendo teatro si conoscono gli aspetti che vengono di solito dati per scontati: impari a conoscere la tua voce e fare attenzione all’intonazione e l’intenzione che gli dai; a capire il tuo modo di muoverti, di camminare, e anche il tuo modo di stare zitto.
Ho solo accennato ai significati psicologici e sociali della maschera, perché non è l’obbiettivo principale del mio scritto. Per chi voglia approfondire questi temi suggerisco di leggere i testi di Erving Goffman, su tutti “La vita quotidiana come rappresentazione”, o anche approfondire il pensiero di Luigi Pirandello.
E ora torniamo a pensare ad un attore concreto, che sta recitando sul palcoscenico. Quello bravo, che crede in se stesso e a quello che dice, e non ripete a memoria solamente. L’effetto al cuore del pubblico è assicurato.
E così tu spettatore crederai a quello che dirà Amleto al cranio di Yorick (attenti, non è “essere o non essere” come si crede). Così sentirai l’amore di Romeo per Giulietta. Amerai il pianoforte di Danny Boodman T. D. Lemon Novecento, e magari ti verrà anche voglia di farti un viaggio in crociera verso l’America. Così, come hai detto tu l’altra sera Nicola, Benigni, seppur non puro attore di teatro, riesce ad appassionare migliaia di persone con il suo profondo amore per la Divina Commedia.
Questa sensazioni se non sono sentite dal recitante non sono sentite neanche dal pubblico.
Un Romeo che recita semplicemente a memoria le battute alla sua Giulietta non vi sembrerà più colpito dalla freccia di Cupido di un impiegato delle poste il lunedì mattina.
E’ banale dirlo, ma questa differenza vale per tutte le cose della vita. Perché puoi studiare il pianoforte in conservatorio per dieci, venti anni, ma, se non ci metterai il cuore, sarà solo una sequenza più o meno ordinata di note. Chi avrà voglia di ascoltarti se sei solo un tecnico? Se sei li, ma ti chiedi come diavolo ci sei finito?
Basta crederci, insomma. Poi, certo, un attore (ma anche un ingegnere, un insegnante, uno psicologo, e via dicendo) deve conoscere la teoria e la tecnica. Ma senza una motivazione profonda, tanta strada non ne farà.
Per far sì che la gente ti ascolti, devi dar forza alle tue parole.
Se non fai così come farai a convincere quella brunetta che ti piace tanto a prendere un aperitivo insieme a te? Già immagino la scena.
“Ti faccio sapere. Scusa ma ora devo proprio andare, ho… Ehm…Un appuntamento… dal dentista”
“Ma sono le dieci di sera”
“Eh si, sai com’è… E’ uno di quei tipi attaccati al lavoro…”
Beh, ma poi il Bardo aveva ragione, inutile negarlo. Tutto il mondo è un palcoscenico.

sabato 5 aprile 2008

Il silenzio blu

sabato 5 aprile 2008

Vede signora, è tutto questo. Tutto questo rumore. Per nulla poi! Qua si discute se il cavallo di Napoleone era più bianco della candeggina; litigi, bisticci, lotte tra razze, pesci di tutti i tipi che nuotano nel buio più totale. Non vedono proprio un accidente! Neanche se ci sbattessero contro se ne accorgerebbero.
Sono un po’ stufo di queste chiacchiere. Insomma, le pare che mi faccia coinvolgere in queste bambinate? Ma certo che no. Ecco, vede, qui non c’è nessuno che ascolta, sentono e basta, e ascoltano quello che vogliono ascoltare. Ma il bello è che poi ti riempiono con un fiume di parole, una cascata di frasi, una più uguale dell’altra. E tu devi starli ad ascoltare, perché poi succede il finimondo. Intanto le parole perdono di significato, diventano qualcosa di cui liberarsi.
Ma le parole sono magiche. Non vanno buttate via così.
Ah, signora mia. Il silenzio lo sanno usare solo in pochi per dire qualcosa. Per molti è solo una pausa. Sa, per riprendere fiato, risparmiare le forze per il prossimo conato di parole.
La domenica io mica vado a messa, a sorbirmi qualche altra chiacchiera. E poi, dannazione, io faccio il mestiere che ha le parole più brutte del mondo! L’avvocato! Usucapione, debito, prelazione, anticipo, violenza carnale, danni morali, responsabilità patrimoniale, assassinio, concorrenza, illecito, abusivo, garanzia, rescissione.
No, no. Vado al mare.
Sa, c’è una bella spiaggetta, incastonata tra gli scogli, lontana dalle folle. Una perla. La sabbia è fina fina. Alle spalle ci sono le rupi che scendono a strapiombo, che in cima sono incoronate da arbusti e fichi d’india. Ma le cose più straordinarie sono sottacqua!
Tuffarsi è meraviglioso. Un rito di passaggio, dalla terraferma al liquido mondo alieno. Non c’è più la gravità e mi muovo in tutte le direzioni. I rumori sono attutiti ed ovattati. E io nuoto, vago per i fondali, tra gli scogli e le alghe, mentre esseri di tutti i tipi mi passano accanto. E poi guardo in fondo, verso l’orizzonte, e il blu diventa acceso, intenso, profondo.
Laggiù regna il silenzio. Il silenzio blu.
 
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